La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
(G. Gaber)
Se ha ragione Gaber e la libertà non ha a che fare con il rintanarsi su un albero, significa che la libertà ha a che fare con lo sporcarsi le mani e con il farlo insieme ad altri. Non lo pensa solo Gaber: ad esempio un piccolo ma illuminante testo di Amartya Sen (premio Nobel per l’economia) si intitola “La libertà individuale come impegno sociale”.
E se la libertà è partecipazione, ciò significa che l’impegno sociale ci rende liberi. Certo ci rende anche più impegnati e stanchi, ci sottrae serate alla famiglia ed alla tivù, ci fa litigare con qualcuno che il giorno dopo rivediamo al bar, ci fa sorbire discorsi già sentiti o un po’ fuori luogo…ma ci rende liberi. Liberi di sapere, di scegliere, di agire. Libertà non come liberarsi degli altri (e chiudere il mondo fuori) ma come capire, decidere e agire con gli altri. Un bel cambio di prospettiva.
Ma di quale partecipazione stiamo parlando? Che cosa vuol dire partecipare? Innanzitutto vuol dire prendere parte attivamente, non solo sentirsi parte (del tipo: “bravi, sono con voi…ma andate avanti voi che io sto a casa davanti alla tivù”), vuol dire implicarsi, sporcarsi le mani e metterci la faccia. Attivamente, in prima persona, “proprio io”.
Più tecnicamente, stiamo parlando del coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche (che dunque li riguardano, come dice la parola stessa) che può avvenire sia per invito delle istituzioni o dei decisori (“dall’alto”) oppure per iniziativa dei cittadini stessi (“dal basso”).
Questo tipo di partecipazione, di cui sono strumenti il bilancio partecipativo, i comitati di cittadini, il dibattito pubblico, etc., si sta sempre più diffondendo anche in Italia.
Sgombriamo subito il campo: la partecipazione non è la panacea di tutti i mali, ed anzi va usata con consapevolezza perché comporta rischi e fatiche. Se le fatiche sono facilmente immaginabili e le abbiamo già citate (la partecipazione è impegnativa, sottrae tempo ad altro, ci fa confrontare con ide diverse dalle nostre…), i rischi forse sono meno evidenti. Ma non meno importanti.
A nostro avviso, chi propone dei percorsi partecipativi lo deve fare avendo ben chiaro e dichiarando esplicitamente che cosa può/vuole ottenere dalla partecipazione. Un esempio: se l’amministrazione comunale ha già deciso che realizzerà un determinato progetto e vuole informare la popolazione, può farlo attraverso assemblee pubbliche che possono anche rientrare nel calderone della partecipazione, ma siamo solo ad un primo livello, non molto complesso (anche se non sempre scontato!), di partecipazione, perché attraverso il coinvolgimento vogliamo “solo” informare di decisioni già prese (anche legittimamente, sia chiaro). Se invece l’amministrazione comunale ha una quota di soldi e deve decidere come investirli (un asilo nido piuttosto che un campo da golf, o un silos per auto), può essere intenzionata a farlo insieme con i cittadini (e qui siamo nella condizione di partecipazione in senso pieno). Ma in questo caso deve essere chiaro (e deve essere poi effettivamente così) che li chiama a decidere, non solo ad ascoltare una decisione già presa.
Ci pare che il maggior rischio sia quello di confondere (non necessariamente in malafede) una partecipazione/informazione con una partecipazione intesa come reale condivisione del potere decisionale con i cittadini stessi.
Ci sono anche altri rischi, ad esempio illudere i cittadini che possano scegliere, per la realizzazione di una nuova piazza, tra alcuni progetti attraverso un referendum, ma poi dire loro “Ci spiace, quello che avete scelto è troppo caro per le nostre esigue finanze, ne facciamo un altro!”. E via discorrendo.
Ma tutti questi usi poco chiari o errati o manipolatori della partecipazione producono un effetto comune, quello di una ricaduta negativa per l’amministrazione poiché il cittadino si sente “fregato” (“ma allora era già tutto deciso!”) o “sfruttato” (“mi avete fatto venire a tutte queste riunioni, ma bastava un volantino in buca, se era già tutto deciso!”). E, di più, c’è anche una ricaduta negativa per le istituzioni in generale, con un probabile calo della fiducia nelle istituzioni, già piuttosto bassa in Italia.
Partecipazione: perché.
Nonostante rischi e fatiche, dicevamo, noi affermiamo che vale la pena mettere in atto forme di consultazione partecipata (o, per meglio dire, di deliberazione) coi cittadini. Proviamo a spiegare il perché attraverso alcune obiezioni comunemente mosse alle pratiche partecipative:
Obiezione n.1 – “I cittadini non sanno, non hanno le competenze per decidere”: i cittadini, le persone comuni, per il semplice fatto di abitare un luogo sanno molte cose relativamente a quel luogo (pensiamo alle conoscenze dei pescatori sulle correnti marine, a quelle del commerciante o dell’albergatore sui flussi turistici, etc.). Non si tratta solo di “saggezza popolare”, ma di un vero e proprio “sapere locale”, patrimonio non sempre consapevole ma ricco e utile per gli interventi sul territorio.
E poi, i cittadini possono sempre informarsi, nel caso non abbiano determinate conoscenze, dunque la partecipazione aumenta le loro competenze: è infatti nota la possibilità che semplici cittadini diventino di “controesperti”, cioè si costruiscano un bagaglio di conoscenze tecniche da confrontare (anche opporre, se serve) a quelle dei tecnici (che spesso sono estranei al territorio, classicamente consulenti esterni, dunque per definizione esperti in materia ma non del “locale”).
Obiezione n.2 – “I cittadini non hanno voglia/tempo per partecipare”: i dati sulla partecipazione indicano che tali esperienze sono in crescita e che i cittadini, pur non negando le difficoltà, le fatiche, etc., se chiamati, prendono parte. E comunque ci piacerebbe che potessero deciderlo i cittadini se hanno voglia e tempo, dando loro la possibilità di farlo, ed anzi creando le migliori condizioni possibili (orari, luoghi, cura della situazione che deve risultare il più possibile piacevole ed arricchente, diffusione delle comunicazioni e degli inviti, linguaggio appropriato …).
Piuttosto, il problema vero sta nel chi partecipa. Perché è vero che la partecipazione non raggiunge tutte le fasce di cittadini e che si rischia di escludere alcune persone già più defilate/emarginate socialmente, mentre la vera sfida della partecipazione è far emergere le voci di solito inascoltate (perché sono quelle che possono arricchire il dibattito).
Obiezione n.3 – “La partecipazione dei cittadini fa perdere tempo ai cittadini e ai politici/decisori”: la partecipazione richiede tempi adeguati al coinvolgimento, alla complessità della decisione da prendere, allo scambio fra le persone “comuni” e con gli esperti. Tempi adeguati, né troppo lunghi né troppo brevi. Se l’obiettivo è mettere in campo tutti i possibili punti di vista, necessariamente le persone devono avere il tempo di costruire un dialogo, un terreno comune, di conoscersi reciprocamente per fidarsi, e può anche essere un tempo considerato lungo: ma sappiamo anche che la decisione presa dopo uno scambio approfondito e serio è di solito più saggia, adeguata e condivisa di una presa in modo poco trasparente o affrettato.
Una scelta fatta da pochi decisori, magari anche in tempi molto rapidi, può essere poi avversata dai cittadini che possono rallentarne anche di molto la realizzazione (le opposizioni alle grandi opere dovrebbero insegnare qualcosa, e mentre si allungano i tempi anche i costi decollano…).
Obiezione n.4 – “La partecipazione costa”: il coinvolgimento dei cittadini ha certo dei costi, economici e non, sia per chi li coinvolge, sia per chi è coinvolto. Ma, come abbiamo appena detto, le opposizioni, i blocchi, i ricorsi… costano molto di più. Soprattutto diventano più economiche le scelte intraprese perché più adatte ai bisogni della popolazione che possono essere espressi nelle pratiche partecipative (soldi ben spesi, dunque).
Obiezione n.4 – “La partecipazione produce conflitto”: il conflitto è talvolta citato come uno dei maggiori costi della partecipazione. Ma in realtà è un’obiezione fallace in partenza, essendo il conflitto (se adeguatamente gestito e genuino, cioè basato differenti punti di vista) un elemento assolutamente naturale delle situazioni collettive, quelle cioè in cui ci si confronta con altre persone su posizioni diverse dalla nostra. Il problema dunque non è il conflitto, che può anzi arricchire il confronto, ma eventualmente la sua cattiva gestione (ad es. spostando il conflitto dai contenuti alle relazioni tra le persone, non attribuendo dignità di ascolto alle posizioni in campo o sopprimendolo sul nascere, consentendo così al conflitto di esplodere in tempie con modi molto più difficili da gestire).
A fronte di tali obiezioni, a cui speriamo di aver risposto in modo esaustivo, ed alle fatiche e rischi che la partecipazione porta con sé, accenniamo ad alcuni benefici del coinvolgimento dei cittadini, vantaggi che presuppongono una partecipazione genuina e ben condotta e che possono essere raggruppati in 4 ambiti:
a) lo sviluppo della cittadinanza: la partecipazione alla gestione della “cosa pubblica” aumenta la conoscenza delle persone, sia quella tecnica, relativa all’oggetto di discussione (il funzionamento di un inceneritore, di un treno ad alta velocità, etc.), sia quella relativa al funzionamento della macchina pubblica stessa (come funziona un consiglio comunale, cos’è una delibera, cosa e come decide una commissione…);
b) la valenza sociale: la partecipazione può aumentare il senso di appartenenza alla comunità, il riconoscimento dell’altro, la capacità di assumere una prospettiva diversa dalla mia;
c) gli aspetti psicologici: il dialogo ed il confronto con altre persone può sviluppare le abilità di ragionamento e di argomentazione, di comunicare in pubblico, anche il proprio senso di “autoefficacia” (sono capace di sostenere una posizione e di modificare l’andamento delle cose);
d) le virtù di governo: il coinvolgimento dei cittadini aumenta la legittimità delle decisioni e quindi la loro solidità e validità.
Lontano dunque dallo slogan “Tutto è bene quel che finisce…in partecipazione”, vorremmo chiudere ribadendo la necessità per le assemblee elettive e gli organi decisionali (come il consiglio comunale) di integrarsi con forme di “democrazia diretta” come quelle rappresentate dalla partecipazione dei cittadini.
La partecipazione, se ben usata, dunque può far bene ai decisori tecnici e politici, ai cittadini, alla comunità. Ma non deve essere uno slogan, né imposta, né manipolatoria. Al contrario, deve essere effettiva, genuina e ben condotta. Diventando così, anche libertà.
La vera chiusura, ma poteva anche essere l’inizio di tutto, la lasciamo alla nostra Costituzione:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, Costituzione Italiana).